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Traccia | Fattispecie | Istituti | Giurisprudenza | Svolgimento |
Traccia
La tossicodipendente Mevia, dopo aver trascorso qualche mese in comunità, senza peraltro conseguire alcun risultato, decide di tornare a vivere a casa dell’anziana madre Caia.
I rapporti tra le due donne, tuttavia, sono molto difficili, in quanto da un lato Caia vorrebbe cercare di convincere la figlia ad intraprendere nuovamente il percorso terapeutico o, quantomeno, a trovare un lavoro; dall’altro, la figlia non ha alcuna intenzione di tornare in cura e, soprattutto, ha riallacciato tutti i rapporti con le cattive amicizie, che aveva dovuto interrompere nel periodo di disintossicazione.
Una sera la ragazza, a corto di soldi per l’acquisto di una dose, chiede alla madre 20,00 euro con la scusa di dover andare a mangiare una pizza; la madre, immaginando che in realtà quei soldi servano per l’acquisto della droga, rifiuta di darglieli, suscitando l’ira di Mevia.
Questa, infatti, dopo aver stretto le mani intorno al collo di Caia, le intima, urlando, di mostrarle dove custodisca tutti i suoi soldi e minaccia di ucciderla qualora non lo faccia.
Caia riesce a divincolarsi ed a chiamare i Carabinieri, i quali, una volta giunti sul posto, conducono Mevia in Caserma.
La ragazza, alquanto preoccupata, contatta il proprio legale al fine di verificare la rilevanza penale delle sue azioni.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Mevia, premessi brevi cenni sugli istituti giuridici sottesi, rediga un parere motivato sulla vicenda.
Fattispecie
Il riferimento ai reati di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 649 c.p. impone di ritenere che l'esclusione sia da intendersi limitata alle sole forme consumate e non anche alle corrispondenti fattispecie tentate.
Istituti
- Art. 56 c.p. (Delitto tentato);
- Art. 629 c.p. (Estorsione);
- Art. 649 c.p. (Non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti).
Giurisprudenza
- Cassazione Penale, sez. II, 17 settembre 2020, n. 27888. Il tenore letterale della prima parte dell'art. 649 c.p., nella quale si fa riferimento specifico ai delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, impone di ritenere che l'esclusione sia da intendersi limitata alle sole forme consumate e non anche alle corrispondenti fattispecie tentate in quanto, come pure recentemente evidenziato, l'autonomia del delitto tentato comporta che gli effetti giuridici sfavorevoli previsti attraverso lo specifico richiamo di determinate norme incriminatrici vanno riferiti alle sole ipotesi di delitto consumato, in quanto le norme sfavorevoli sono di stretta interpretazione e, in difetto di espressa previsione, non possono trovare applicazione anche per le corrispondenti ipotesi di delitto tentato.
- Cassazione Penale, sez. II, 20 novembre 2019, n. 51537. In materia di reati contro il patrimonio, la relazione di convivenza tra l'autore della condotta e la persona offesa, rilevante ai fini della procedibilità a querela di parte prevista dall'art. 649 c.p., implica un rapporto di stretta coabitazione, dal quale esula la situazione di fatto da cui possono derivare incrementi patrimoniali per occasionali ed episodici contributi di persone legate all'interessato da un particolare rapporto affettivo, ma non inserite nella sua organizzazione economica familiare. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva escluso la procedibilità a querela del reato di circonvenzione di persone incapaci sul presupposto che la sola frequentazione dell'abitazione della vittima non avesse dimostrato l'esistenza di un rapporto continuo e stabile di vita comune tra imputata e persona offesa).
- Cassazione Penale, sez. II, 17 ottobre 2019, n. 44863. L'art. 649 c.p., comma 2, prevede che i delitti contro il patrimonio commessi (anche) in danno della sorella non convivente con l'autore del reato (in caso di convivenza verrebbe meno la punibilità, ai sensi del comma 1 dello stesso articolo) sono procedibili a querela della persona offesa. Il reato di tentata estorsione mediante minaccia, commesso in danno della sorella non convivente, è dunque procedibile a querela.
- Cassazione Penale, sez. II, 12 dicembre 2014, n. 14876. In tema di estorsione, il delitto deve considerarsi consumato e non solo tentato, qualora la cosa estorta venga consegnata dal soggetto passivo all'estorsore: ciò vale anche nei casi in cui sia predisposto l'intervento della polizia giudiziaria che provveda immediatamente all'arresto del reo ed alla restituzione del bene all'avente diritto.
- Cassazione Penale, sez. II, 24 settembre 2014, n. 43341. L'esimente di cui all'art. 649 c.p. per i delitti contro il patrimonio in danno di congiunti si riferisce, nel fare menzione dei delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, alle sole forme consumate e non anche a quelle tentate.
Svolgimento
Al fine di verificare la rilevanza penale di quanto posto in essere da Mevia, appare opportuno analizzare, in primo luogo, l delitto di estorsione, disciplinato dall’art. 629 c.p.
La norma de qua, al comma 1, punisce con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000 “chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”.
La fattispecie in esame ha natura plurioffensiva: il bene giuridico tutelato dalla norma è rappresentato non solo dall’interesse pubblico dell’inviolabilità del patrimonio, ma anche dalla libertà personale della vittima.
La condotta tipizzata dal legislatore consiste, infatti, nel procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, attraverso la costrizione della vittima a fare o a omettere qualcosa, operata per mezzo di violenza o minaccia.
Sul punto, affinché la fattispecie in esame possa dirsi consumata, è necessario che alla richiesta estorsiva segua l’effettivo conseguimento dell’ingiusto vantaggio in favore dell’agente o di altri.
L’elemento psicologico dell’estorsione deve essere ravvisato nel dolo generico, ossia nella coscienza e volontà di porre in essere la suesposta condotta criminosa.
Nel caso prospettato, Mevia ha stretto le mani intorno al collo della madre, minacciando di ucciderla qualora la donna non le avesse mostrato dove custodiva i soldi. Ebbene, nonostante tale condotta assuma gli estremi di una richiesta estorsiva, Caia non ha posto in essere quanto richiesto dalla figlia, la quale non ha, pertanto, conseguito alcun vantaggio.
Dovendosi escludere la consumazione della fattispecie di reato in esame, occorre, ora, verificare se possa ritenersi integrata quantomeno nella forma del tentativo.
All’uopo, giova qui richiamare il dettato di cui all’art. 56 c.p., rubricato “Delitto tentato”, ai sensi del quale “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica”.
La norma testé citata regola la figura del delitto tentato, vale a dire di quella situazione oggettiva in cui l’agente pone in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere il reato, senza che quest’ultimo venga però portato a compimento.
Più nel dettaglio, gli elementi costitutivi della predetta fattispecie sono costituiti dall’idoneità dell’atto a delineare il crimine e, altresì, dalla sua inequivocità in un ottica teleologica, a commettere il fatto di reato.
Ebbene, tornando alla fattispecie in esame, è evidente che sebbene gli atti posti in essere da Mevia fossero idonei e diretti in modo non equivoco a costringere Caia a mostrarle il luogo nel quale custodiva i suoi risparmi, questo non è accaduto. La donna, infatti, è riuscita a sottrarsi alla stretta della figlia e a contattare immediatamente i Carabinieri.
Pertanto, alla luce di quanto finora osservato, è indubbio che la condotta di Mevia abbia integrato il delitto di tentata estorsione ex artt. 56, comma 1, 629 c.p.
Ad ogni modo, la sussistenza di un vincolo di parentela tra le due, necessita di un ulteriore richiamo alla causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p.
La norma testé citata, rubricata “Non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti”, dispone che “Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo in danno: 1) del coniuge non legalmente separato; 1-bis. della parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso; 2) di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, ovvero dell'adottante o dell'adottato; 3) di un fratello o di una sorella che con lui convivano.
Ancora, precisa il secondo comma che “I fatti preveduti da questo titolo sono punibili a querela della persona offesa, se commessi a danno del coniuge legalmente separato, o della parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, nel caso in cui sia stata manifestata la volonta' di scioglimento dinanzi all'ufficiale dello stato civile e non sia intervenuto lo scioglimento della stessa, ovvero del fratello o della sorella che non convivano coll'autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell'affine in secondo grado con lui conviventi”.
Da ultimo, il terzo comma prevede, altresì, che “Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai delitti preveduti dagli articoli 628, 629 e 630 e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone”.
Trattasi di un esimente che opera solo ove determinati reati – segnatamente quelli contro il patrimonio – siano commessi a danno di prossimi congiunti.
Secondo quanto appena esposto, dunque, la causa di non punibilità ex art. 649 c.p. non può trovare applicazione allorquando, in primo luogo, la condotta posta in essere ai danni di un soggetto legato da uno dei rapporti familiari espressamente individuati dalla norma configuri il delitto di rapina, estorsione o sequestro di persona a scopo di estorsione.
Ciò detto, avuto riguardo al caso prospettato, giova rilevare che Mevia abbia commesso il delitto di tentata estorsione ai danni della madre, quindi di un proprio ascendente.
Al riguardo, la Suprema Corte ha anche da ultimo confermato che “Il tenore letterale della prima parte dell'art. 649 c.p., nella quale si fa riferimento specifico ai delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, impone di ritenere che l'esclusione sia da intendersi limitata alle sole forme consumate e non anche alle corrispondenti fattispecie tentate in quanto, come pure recentemente evidenziato, l'autonomia del delitto tentato comporta che gli effetti giuridici sfavorevoli previsti attraverso lo specifico richiamo di determinate norme incriminatrici vanno riferiti alle sole ipotesi di delitto consumato, in quanto le norme sfavorevoli sono di stretta interpretazione e, in difetto di espressa previsione, non possono trovare applicazione anche per le corrispondenti ipotesi di delitto tentato” (Cass. pen., sez. II, 17 settembre 2020, n. 27888.).
Tuttavia, poiché, come già rilevato, l’ipotesi del tentativo costituisce un’autonoma fattispecie di reato, le forme tentate dei delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione potranno essere fatte rientrare nella seconda parte del disposto ex art. 649, comma 3, c.p., purché siano state commesse con violenza alle persone.
Dunque, applicando quanto testé osservato al caso di specie, poiché la condotta di Mevia ha integrato il delitto di tentata estorsione, commesso mediante violenza a danno della madre, deve escludersi che possa applicarsi nei confronti di questa la causa di non punibilità ex art. 649 c.p.
Conclusioni
In conclusione, la condotta di Mevia, secondo cui la ragazza ha stretto le mani intorno al collo della madre per obbligarla a indicarle il luogo nel quale questa custodiva i suoi soldi, integra il delitto di tentata estorsione; difatti, nonostante gli atti fossero idonei e diretti in modo non equivoco a commettere la fattispecie de qua, la stessa non si è consumata poiché la donna, sottraendosi alla presa della figlia, non le ha rivelato quanto da lei richiesto.
Mevia sarà, quindi, chiamata a rispondere del delitto ex artt. 56, 629 c.p., non potendo applicarsi nei suoi confronti la causa di non punibilità ex art. 649 c.p.