Nei fatti, è accaduto che fosse stato promosso reclamo contro un provvedimento del magistrato di sorveglianza, che aveva respinto un’istanza di liberazione anticipata. Il reclamo era stato avanzato sia dal condannato che dal difensore, al quale però nessuna preventiva notifica del provvedimento impugnato era stata fatta.
Il Tribunale di sorveglianza adito aveva dichiarato inammissibili entrambi i reclami: quello del condannato, perché privo di motivi; quello del difensore perché “tardivo”.
Adita la Corte di Cassazione, la causa è stata rimessa alle Sezioni unite, proprio per chiarire se in effetti dovesse o meno essere notificato anche al difensore del condannato il provvedimento del magistrato di sorveglianza.
Le Sezioni unite hanno dato risposta affermativa, così come enunciato nel principio di diritto sopra riferito.
All’apparenza la questione non avrebbe dovuto neppure porsi, stante il fatto che l’art. 69-bis ord. pen., richiama l’art. 127 c.p.p. per l’individuazione dei soggetti ai quali va notificato il provvedimento (tra i quali rientra pacificamente anche il difensore).
Se non che, per classiche alchimie giurisprudenziali, la figura del difensore era considerata come non rilevante, poiché «la sua partecipazione non era necessaria»: così dalla sua non necessità procedimentale, si è dedotto per anni che non vi fosse alcuna necessità di notificare alcun atto allo stesso.
Tale ragionamento è stato, per fortuna, finalmente considerato come improprio ed illegittimo, poiché così non solo si riduce il portato normativo, ma si lede anche il “diritto di difesa”, considerato come inviolabile anche in sede esecutiva anche nella sua forma dell’assistenza tecnica.
Come bene ha sottolineato la Suprema Corte, richiamando sentenze degli anni ’70 della Corte Costituzionale (in particolare la sentenza n. 69/1970 e la sentenza n. 53/1968), la tutela dell’art. 24 Cost. si riallaccia a quella dell’art. 13 Cost. di modo che «la difesa d’ufficio debba essere sempre, sussidiariamente, presente, in tutti i casi che siano da considerarsi equivalenti sul piano della tutela della libertà dell’inquisito», tenuto altresì conto che l’assistenza tecnica del difensore deve essere obbligatoria ogni qual volta che viene in rilievo «l’interesse umano oggetto del procedimento, vale a dire quello supremo della libertà personale».
Da ciò la Cassazione con rinvio del provvedimento impugnato, tenuto conto che il reclamo del difensore, se poteva sanare la mancanza della notificazione, non poteva per ciò stesso ritenersi tardivo.
A margine, non si può che plaudere alla decisione in commento, perché ha correttamente inquadrato il ruolo essenziale del difensore e della difesa tecnica anche in sede esecutiva.
Ciò non sempre è accettato nella prassi, anche per comprensibili ragioni amministrative (non sempre, infatti, la nomina del difensore di fiducia è messa concretamente a disposizione della magistratura di sorveglianza).
Se non che affermare che il principio è il riconoscimento dell’assistenza tecnica, pone le basi ermeneutiche per una lettura costituzionalmente orientata delle norme anche in fase esecutiva.
Se infatti in alcuni casi la partecipazione del difensore non è necessaria, ciò non significa che lo stesso non abbia diritti di partecipazione o che possano limitarsi verso lo stesso diritti di intervento riconosciuti al proprio assistito.
È su tale fondamentale aspetto (cioè la sostanziale equiparazione tra diritti riconosciuti all’indagato, all’imputato e al condannato con quelli propri del difensore) che bisogna muoversi per comprendere la struttura sempre più giurisdizionalizzata della fase dell’esecuzione.
Forse sul punto un chiarimento normativo, proteso a modificare nel senso qui auspicato l’art. 99 c.p.p. sarebbe opportuno.
Dopo tutto, se al difensore spettano di regola le stesse facoltà e diritti dell’imputato e questa equiparazione vale anche per la fase delle indagini (art. 61 c.p.p.), perché mai tale regola non dovrebbe valere dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna?
Ciò potrebbe essere affermato solo facendo riferimento ad una sorta di diminuzione della capacità difensiva a seguito della condanna, ma ciò, proprio grazie all’art. 24 Cost., è inammissibile specie ogni qual volta si tratti, direttamente o indirettamente, di limiti alla libertà personale anche di un condannato.
Dopo tutto, ogni condannato è e rimane uomo, prima, durante e dopo ogni processo.
Fonte: Diritto e Giustizia