Fermo il limite massimo tassativo dei caratteri di cui all’art. 3 del decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 167/2016, la scelta difensiva di illustrare e spiegare le censure tecniche con immagini inserite nel corpo dell’atto e di “sforare” perciò di poche e non eccessive pagine il limite, puramente indicativo, di 35 pagine, non può costituire valida ragione per non esaminare le ultime pagine del ricorso.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato con la sentenza n. 6043/20, depositata il 12 ottobre, intervenendo in una controversia nata dall’impugnazione dell’esito di una procedura d’appalto per la fornitura di sistemi di analisi medica.
Oltre alle censure di merito, l’appellante ha infatti dedotto l’erroneità della pronuncia del TAR Emilia-Romagna impugnata laddove ha accolto l’eccezione di controparte relativa allo sforamento dei limiti dimensionali del ricorso di prime cure per il superamento del limite di 35 pagine fissato dal decreto n. 167/2016 del Presidente del Consiglio di Stato. L’art. 3 del suddetto decreto stabilisce infatti che per il rito degli appalti il numero massimo di caratteri consentito ammonta a 70.000, corrispondenti a circa 35 pagine nel formato di cui all’art. 8 del decreto medesimo. Secondo l’appellante «lo sforamento di 3-4 pagine rispetto al numero di 35 pagine sarebbe dipeso dalla scelta difensiva di inserire alcune immagini nel corpo dell’atto, ad illustrazione di talune censure, anziché rinviare a separati documenti, per evitare che la consultazione in parallelo del ricorso e dei documenti, da parte del giudice, determini una sorta di effetto “ping pong” o, come afferma l’appellante, una sorta di effetto “spettatore della partita di tennis”».
Il Collegio condivide l’affermazione per cui il primo giudice abbia seguito un’interpretazione eccessivamente rigoristica e formalistica del citato decreto n. 167/2016, «in quanto lo sforamento dei limiti dimensionali deve essere correlato prevalentemente al numero dei caratteri, il solo che abbia carattere vincolante, anziché al numero delle pagine (che ha natura orientativa)». Difatti l’obbligo di sinteticità dell’atto deve essere valutato secondo un canone di ragionevolezza che si contemperi in modo equilibrato con la garanzia della tutela giurisdizionale e le esigenze difensive.
Aggiunge inoltre la pronuncia in commento che «fermo il limite massimo tassativo dei caratteri, la scelta di illustrare e spiegare complesse censure tecniche con immagini, nel corpo dell’atto, e di “sforare” perciò di poche e non eccessive pagine il limite, puramente indicativo, di 35 pagine non può costituire valida ragione per non esaminare le ultime tre o quattro pagine del ricorso senza considerare, irragionevolmente, che tale esiguo sforamento non dipende da prolissità grafica del difensore, ma dall’esigenza, ragionevole e meritevole di tutela, di offrire una rappresentazione il più possibile chiara, e intellegibile, delle medesime censure tecniche non solo per verba, ma anche per imagines et signa in un contenzioso, come quello degli appalti, contraddistinto da un’elevata complessità tecnica e in un processo, come il presente, che richiede peculiari competenze specialistiche».
Si tratta di una scelta difensiva che non essere ritenuta di per sé irrispettosa del principio di sinteticità degli atti in quanto «il dovere di sinteticità non è un valore in sé, un fine ultimo, ma è funzionale alla intelligibilità dell’atto, sul presupposto che ciò che è complesso, ridondante, superfluo nuoce alla comprensione delle censure e, di fatto, rende il processo amministrativo meno efficace nella tutela degli interessi legittimi o, in talune ipotesi, dei diritti soggettivi».
Sulla base di tali argomentazioni, il Consiglio di Stato ritiene di dover esaminare anche i motivi non esaminati dal primo giudice ma ciò non è sufficiente per ribaltare la decisione impugnata.
Fonte: Diritto e Giustizia