Necessario un nuovo processo d’appello per ricalcolare il ristoro economico in favore della persona danneggiata. Quest’ultima ha perduto il lavoro per avere superato il periodo di comporto a causa dei postumi di un incidente stradale in cui egli, in sella a una bici, è stato investito da una vettura.
Risarcimento pieno per il lavoratore che è stato licenziato a causa delle gravi lesioni riportate a seguito di un incidente stradale, lesioni che lo hanno costretto a violare il periodo di comporto. Il ristoro economico in suo favore dovrà tenere conto non della percentuale di invalidità, bensì delle retribuzioni che avrebbe potuto ottenere fino alla pensione (Cassazione, ordinanza n. 28071/20, depositata il 9 dicembre).
All’origine della vicenda giudiziaria c’è un incidente stradale che si verifica nel novembre del 2003: un ciclista viene investito da una vettura e riporta gravi lesioni. L’uomo è dipendente di un’azienda con regolare contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma i postumi – una accertata invalidità – dell’incidente sono così seri da obbligarlo a violare il limite rappresentato dal periodo di comporto: ciò significa per lui il licenziamento.
Consequenziale la richiesta di risarcimento avanzata dall’uomo, oramai disoccupato, nei confronti del conducente e del proprietario della vettura e nei confronti della compagnia assicurativa.
In primo grado egli si vede riconosciuto un ristoro economico quantificato in oltre 270mila euro «in aggiunta agli acconti già corrisposti dalla compagnia assicurativa». In secondo grado, poi, conducente e proprietario del veicolo e assicurazione vengono condannati a versare ancora oltre 50mila euro «a titolo di danno non patrimoniale» e quasi 30mila euro «a titolo di danno patrimoniale da lucro cessante» nei confronti del lavoratore ora disoccupato.
Col ricorso in Cassazione, però, la persona danneggiata chiede un ulteriore ampliamento del risarcimento. In sostanza, egli sostiene, tramite il proprio legale, che è stata ignorata la perdita reddituale da lui subita. E più precisamente egli addebita ai giudici di Appello di avere compiuto un errore, avendo «liquidato in suo favore il danno patrimoniale, dopo aver calcolato l’importo delle retribuzioni e degli altri emolumenti perduti a causa del licenziamento, non integralmente, ma solo nella misura di un terzo, cioè nella misura pari alla menomazione della sua capacità lavorativa».
Questa osservazione è ritenuta corretta dai Giudici della Cassazione.
In premessa, dal ‘Palazzaccio’ ricordano che l’uomo «risulta avere perduto il suo impiego a tempo indeterminato in conseguenza del danno subito a causa dell’incidente, in quanto, a causa dei relativi postumi, ha superato il periodo di comporto ed è stato licenziato, senza essere riuscito a reperire un’altra occupazione». Ciò significa che «il danno patrimoniale relativo alla sua perdita reddituale avrebbe dovuto essere liquidato sulla base dell’importo (eventualmente capitalizzato) delle retribuzioni che avrebbe conseguito in virtù del suo preesistente rapporto di lavoro, se non fosse stato licenziato a causa delle lesioni riportate nel sinistro, fino alla data della pensione, oltre che degli assegni familiari, della perduta possibilità di progressione in carriera e del danno pensionistico», chiariscono i magistrati, mentre «la percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica conseguente all’incidente, riconosciuta dal consulente tecnico di ufficio nella misura del 33% (che, peraltro, sommata alla precedente invalidità dell’uomo, risulterebbe avere determinato una invalidità complessiva del 75%), non poteva avere in concreto alcun rilievo ai fini della liquidazione del danno patrimoniale».
Anche per la Cassazione, quindi, è stato commesso un errore in Appello, laddove, «dopo aver calcolato gli importi delle retribuzioni e degli altri emolumenti perduti a causa del licenziamento», è stato riconosciuto «esclusivamente il 33% (invece del 100%) di detti importi». Così non è stato riconosciuto alla persona danneggiata «l’intero pregiudizio subito in concreto, pregiudizio che, nella specie, consiste nella perdita dei redditi (in parte futuri) derivanti dal rapporto di lavoro di- pendente di cui era titolare».
Dalla Cassazione aggiungono poi che non può sostenersi che «il danneggiato avrebbe dovuto dimostrare che non era possibile per lui reperire un’altra attività lavorativa», poiché «avrebbe dovuto essere il danneggiante a dimostrare, eventualmente, che il danneggiato aveva trovato un nuovo impiego».
Tirando le somme, in Appello la vicenda dovrà nuovamente essere esaminata, tenendo conto del principio fissato dalla Cassazione, principio secondo cui «laddove il danneggiato dimostri di avere perduto un preesistente rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui era titolare, a causa delle lesioni conseguenti ad un illecito, il danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri, va liquidato tenendo conto di tutte le retribuzioni (nonché di tutti i relativi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici) che egli avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro, in misura integrale e non in base alla sola percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica accertata come conseguente alle lesioni permanenti riportate, salvo che il responsabile alleghi e dimostri che egli abbia di fatto reperito una nuova occupazione retribuita, ovvero che avrebbe potuto farlo e non lo abbia fatto per sua colpa, nel qual caso il danno potrà essere liquidato esclusivamente nella differenza tra le retribuzioni perdute e quelle di fatto conseguite o conseguibili in virtù della nuova occupazione».
Fonte: Diritto e Giustizia